Inchiesta Ambiente: Interdetti Due Funzionari Gesesa per Contaminazione dei Fiumi Sanniti
Su disposizione della Procura della Repubblica di Benevento, i Carabinieri del Raggruppamento per la Tutela Ambientale e la Transizione Ecologica di Napoli hanno dato esecuzione a due ordinanze interdittive emesse dal Tribunale del Riesame di Napoli. I destinatari sono Francesco De Laurentiis, 61 anni, residente a Benevento, e Giovanni Tretola, 46 anni, di Sant’Angelo a Cupolo, entrambi dirigenti della società Gesesa. Questi provvedimenti cautelari sono l’ultimo sviluppo di una complessa inchiesta, coordinata dai magistrati beneventani e condotta dal Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri di Napoli, focalizzata sulla grave contaminazione dei fiumi Calore e Sabato, che scorrono nella provincia di Benevento. Già nel maggio dell’anno precedente, la stessa indagine aveva condotto alla confisca preventiva, autorizzata dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Benevento, di dodici impianti di depurazione gestiti dalla medesima azienda.
Inizialmente, il GIP aveva negato l’applicazione delle misure cautelari. Tuttavia, a seguito di un ricorso presentato dal Pubblico Ministero, tali richieste furono successivamente accolte dal Tribunale del Riesame di Napoli. Le misure sono poi divenute pienamente operative dopo che la Suprema Corte di Cassazione ha respinto le impugnazioni avanzate dagli indagati.
Le ordinanze cautelari interdittive, eseguite oggi, colpiscono il responsabile della gestione operativa degli impianti di depurazione e l’assistente alla pianificazione di GE.SE.SA. s.p.a. A carico di questi individui, sono stati riconosciuti gravi indizi di colpevolezza per una serie di illeciti, tra cui inquinamento ambientale, frode nelle forniture pubbliche, truffa aggravata, gestione abusiva di rifiuti, scarichi di acque reflue privi di autorizzazione e falsità ideologica in atti pubblici.
Le precedenti investigazioni della Procura avevano permesso di accertare una diffusa e ingente presenza di scarichi diretti, provenienti dalle reti fognarie dei comuni di Benevento e della provincia, che confluivano nei fiumi Calore e Sabato. Questa situazione era imputabile, in certi contesti, all’assenza di impianti di depurazione, che comportava lo sversamento di reflui contaminanti direttamente nei corsi d’acqua; in altri casi, era dovuta al malfunzionamento degli impianti di depurazione già in opera.
I rilevamenti tecnici, raccolti durante le indagini con l’essenziale e rapido supporto dell’ARPAC Campania, hanno attestato un grave degrado dei fiumi. Tale degrado era causato dallo sversamento, dagli impianti di depurazione, di acque pesantemente contaminate da solidi sospesi, alluminio e piombo, nonché da concentrazioni elevate di azoto ammoniacale e azoto nitrico, e persino dalla presenza di “Escherichia Coli” in quantità ben superiori ai limiti di legge. Questa contaminazione ha provocato un inquinamento significativo e quantificabile dei corsi d’acqua menzionati, alterando la composizione originale della matrice ambientale dei fiumi del bacino idrografico sannita e generando uno squilibrio strutturale manifestato da un chiaro peggioramento dello stato o della qualità ecologica.
Il degrado ambientale, secondo quanto stabilito dalla Procura e basato sullo stato degli atti, è attribuibile a una gestione operativa negligente e ingannevole degli impianti da parte degli indagati, dipendenti di GE.SE.SA. s.p.a., la società incaricata della gestione dei depuratori. In alcuni frangenti, questa responsabilità si estendeva anche ai proprietari di un laboratorio privato, la cui funzione era quella di rendere i campioni delle acque di scarico “conformi” ai parametri normativi solo sulla carta, nascondendo così le gravi condizioni di “ecotossicità” derivanti dalla gestione impropria.
Le indagini hanno rivelato che gli imputati, pur essendo pienamente consapevoli del grave e diffuso malfunzionamento della maggior parte degli impianti, non solo omettevano di prendere le misure correttive necessarie, ma ricorrevano addirittura a stratagemmi fraudolenti per occultare le inefficienze. Queste azioni, di conseguenza, causavano un ulteriore e continuo inquinamento dei corsi d’acqua. Con tale comportamento, venivano privilegiati esclusivamente gli interessi economici privati dell’azienda, a scapito del bene pubblico, ovvero la salvaguardia delle risorse idriche vitali del nostro paese dalla contaminazione di reflui non conformi alla legge.
Per esemplificare, in un’occasione, il personale addetto alla vigilanza, recatosi presso un depuratore per accertarne l’efficienza e le prestazioni, redasse un rapporto ingannevole. In tale documento, veniva intenzionalmente omesso ciò che era stato effettivamente riscontrato durante l’ispezione: l’interruzione dello scarico dei reflui nell’impianto di depurazione da parte di una ditta di manutenzione, con il conseguente riversamento diretto nel corpo idrico. In un altro episodio, era stato implementato un sistema di bypass con l’obiettivo di aggirare alcune fasi del processo di purificazione. Questo sistema includeva un timer che, in orari specifici, interrompeva l’afflusso dei reflui all’impianto di sollevamento, deviandoli così in un fossato.
Il Tribunale del Riesame ha riconosciuto non solo la presenza di seri indizi di colpevolezza, ma anche la fondatezza delle esigenze cautelari nei confronti dei dipendenti Ge.Se.Sa. Ha sottolineato come questi ultimi abbiano perpetrato, con una continuità preoccupante e attraverso una vasta e complessa serie di azioni e sotterfugi, e nonostante fossero pienamente a conoscenza delle indagini in corso sulla gestione dei depuratori a loro assegnati, un numero considerevole di infrazioni.
I riscontri emersi dalle indagini hanno ampiamente documentato la particolare intenzionalità criminale dei dipendenti Ge.Se.Sa. e hanno confermato che la negligenza nella gestione degli impianti di depurazione da parte di Ge.SE.SA. nel Sannio derivava da una chiara politica aziendale mirata alla riduzione dei costi operativi. Questo disegno, che non può che essere definito criminoso considerando le devastanti ripercussioni ambientali che ha causato, vedeva comunque la partecipazione di tutti i soggetti che ricoprivano ruoli funzionali in quel contesto operativo.
Le investigazioni, infatti, hanno raccolto seri indizi che gli imputati non agivano per mero profitto personale, ma nell’interesse dei dirigenti e della stessa società per cui lavorano. “Anche per queste motivazioni,” ha affermato il Tribunale del Riesame riguardo all’attualità delle esigenze cautelari, “non si può giustificare l’assenza di rischio di reiterazione basandosi sul fatto che gli impianti oggetto del procedimento odierno sono stati sequestrati, questa volta senza facoltà d’uso. Occorre invece considerare la possibilità che, nel loro attuale contesto, gli indagati possano porre in essere analoghi comportamenti criminali, qualora necessario, persino in ottemperanza a politiche aziendali come quelle evidenziate dalle indagini.”
Queste conclusioni sono state validate dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale, d’altro canto, ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata dall’allora Amministratore Delegato. Tale annullamento è avvenuto limitatamente alla questione delle esigenze cautelari, pur confermando l’esistenza di gravi indizi a suo carico.
Le misure interdittive imposte proibiscono agli indagati, per un periodo di un anno, di esercitare qualsiasi attività imprenditoriale o professionale nei settori della depurazione delle acque, della gestione dei rifiuti di ogni tipo e natura, e della distribuzione di acqua destinata al consumo pubblico.
