Svolta Giudiziaria per Paride De Rosa: la Cassazione Revoca l’Ergastolo al Capoclan

Svolta Giudiziaria per Paride De Rosa: la Cassazione Revoca l’Ergastolo al Capoclan

La Suprema Corte di Cassazione, nella sua Prima Sezione Penale, presieduta dal Dottor Rocchi e con il Dottor Barone come relatore, ha siglato una conclusione decisiva a un lungo iter giudiziario, registrando un inequivocabile trionfo per la linea difensiva.

Precedentemente, il 7 gennaio 2015, Paride De Rosa aveva ricevuto una condanna all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Napoli, presieduta dal Dottor Pentagallo. L’imputazione riguardava due omicidi perpetrati a Qualiano a distanza di un mese l’uno dall’altro: quello di Pasquale Russo, noto come ‘o cartunaro, il 9 novembre 2006, e quello di Armando Alderio, detto ‘o scarpariello, l’1 dicembre 2006.

Tali delitti si inserivano nel contesto di una sanguinosa faida tra le cosche D’Alterio/Pianese e De Rosa, innescata dall’assassinio di Nicola Pianese, soprannominato ‘o mussuto’, figura storica della criminalità organizzata dagli anni ’90 e a cui De Rosa nutriva una profonda lealtà.

Le prove presentate contro Paride De Rosa apparivano, all’epoca, estremamente gravi. Il capoclan si trovò ad affrontare le testimonianze di ben nove collaboratori di giustizia: Ciro Pianese, Bruno D’Alterio, Vito Guadagno, Giovanni Chianese, Michele D’Alterio, Rosario Solmonte, Ciro Cappiello, Salvatore D’Arbitrio e Vincenzo Di Mare. Tutti costoro convergevano nell’attribuire a ‘Pariduccio’ il ruolo di mandante ed esecutore dell’omicidio di Pasquale Russo, freddato a colpi d’arma da fuoco in una via centrale di Qualiano il 9 novembre 2006. I medesimi collaboratori riferirono che De Rosa fosse stato anche il mandante dell’uccisione di Armando Alderio, avvenuta nello stesso comune solo un mese dopo. La sentenza di primo grado sancì la credibilità di queste dichiarazioni, supportate da ulteriori elementi probatori: riprese da telecamere di sorveglianza che immortalavano gli aggressori, sequestri di armi e intercettazioni telefoniche, deposizioni di testimoni oculari e il ritrovamento dei veicoli impiegati per i crimini, inclusa un’ambulanza utilizzata per l’omicidio di Russo Pasquale.

Nel corso del dibattimento di primo grado, si registrarono vivaci confronti tra l’avvocato Dario Vannetiello, difensore di De Rosa e membro del Foro di Napoli, e i Giudici della Corte d’Assise, specialmente durante l’interrogatorio dei collaboratori di giustizia.

La tensione non diminuì in appello. L’arringa difensiva di quattro ore, pronunciata dall’avvocato Vannetiello per Paride De Rosa, fu addirittura sospesa dal Presidente della Corte d’Assise d’Appello, su istanza del Procuratore Generale Dottor Antonio Ricci, a causa dei toni giudicati eccessivi impiegati dal legale nei confronti dei pentiti.

Al termine di una prolungata camera di consiglio, la Prima Sezione Penale della Corte d’Assise d’Appello, presieduta dalla Dottoressa Maria Monaco e con il Dottor Pasquale Santaniello come giudice a latere, emise il 16 settembre 2016 una sentenza che assolveva Paride De Rosa sia dall’omicidio di Pasquale Russo che da quello di Armando D’Alterio. Anche Massimo Giacomelli fu prosciolto dall’accusa relativa all’omicidio di Russo Pasquale.

Questo esito rappresentò un successo difensivo di portata eccezionale: mai prima d’ora, nella giurisprudenza napoletana, le testimonianze di nove collaboratori di giustizia non erano state considerate sufficienti per una condanna. La pronuncia generò considerevole risonanza nell’ambiente giudiziario. L’avvocato Vannetiello basò la sua strategia su numerosi punti di diritto e intricate questioni legali, trovando riscontro nella dettagliata motivazione della sentenza di secondo grado, redatta dal giudice Santaniello.

Massimo Giacomelli, anch’egli condannato all’ergastolo in primo grado per aver assistito De Rosa nell’omicidio di Pasquale Russo e difeso dall’avvocato Beatrice Salegna, venne anch’egli assolto in sede di appello. Per contro, la sentenza fu un duro colpo per due collaboratori di giustizia coimputati nel medesimo processo: Bruno D’Alterio e Vito Guadagno, le cui condanne a 30 e 16 anni di reclusione, rispettivamente, furono confermate.

A seguito di questa inattesa revisione della condanna, il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Napoli, Dottor Antonio Ricci, presentò un minuzioso ricorso in Cassazione. La difesa, per voce dell’avvocato Dario Vannetiello, replicò con una dettagliata memoria, evidenziando presunte carenze nel pur consistente ricorso del Procuratore e chiedendone l’inammissibilità o il rigetto.

L’attesa per la decisione finale era palpabile. Dopo la relazione sui fatti di causa presentata dal consigliere Dottor Barone, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Dottor Piero Gaeta, intervenne con un’eloquenza incisiva, argomentando con fermezza che Paride De Rosa dovesse ricevere la condanna a vita, ma al contempo sollecitando l’assoluzione definitiva per Massimo Giacomelli.

Di fronte alle argomentazioni dell’autorevole Procuratore, il compito più arduo è ricaduto sul difensore del boss De Rosa. Questi, avvalendosi di ragioni giuridiche abilmente elaborate anche in forma scritta, è riuscito a far prevalere la propria linea contro quella dell’accusa. In questo modo, l’annullamento delle pene all’ergastolo precedentemente comminate a De Rosa e Giacomelli è stato irrevocabilmente sancito.

Nonostante questo notevole traguardo, il boss De Rosa non ha potuto riottenere la libertà immediata, poiché permane in custodia cautelare per reati di associazione camorristica, detenzione di armi ed estorsione. Tuttavia, questa pronuncia gli apre uno spiraglio per un futuro ritorno alla piena libertà, e il suo legale è già impegnato a pianificare le successive strategie in un intricato panorama giudiziario che ha coinvolto il “boss inossidabile” di Qualiano nel corso degli anni. La vicenda legale di “Pariduccio” di Qualiano non è affatto conclusa, e molti capitoli restano da definire. La possibilità per il capoclan De Rosa di riabbracciare la libertà, inizialmente remota dato il quadro accusatorio iniziale che faceva presagire un fine vita in carcere, ora può concretamente essere coltivata.