Il Fatto Non Sussiste: Cinque Anni Sospesi nella Lentezza della Giustizia
Una sentenza ha impiegato ben cinque anni per confermare ciò che sapevo da sempre: “Il fatto non sussiste”. Io ne ero sempre stato consapevole, così come il ristretto cerchio di persone che mi è davvero vicino. Nonostante il lungo calvario, la mia fiducia nella magistratura giudicante non è mai venuta meno, animato dalla certezza che la mia completa estraneità alle contestazioni sarebbe infine emersa. Esprimo gratitudine al collegio giudicante per la meticolosa analisi di ogni dettaglio processuale, fondamentale per la formulazione di questa pronuncia, sebbene il tempo impiegato sia stato eccessivo.
Sebbene non intenda ripercorrere i dettagli di questi cinque anni, ritengo sia indispensabile una riflessione collettiva. Per riassumere i fatti: nel 2015, durante una perquisizione domiciliare collegata a un’indagine per usura, venne rinvenuto un endoscopio. La persona presso cui fu trovato dichiarò che l’apparecchio mi apparteneva e che sarebbe stato utilizzato per manipolare appalti pubblici al comune di Benevento, inserendo la mia figura in un presunto e articolato meccanismo corruttivo che coinvolgeva svariate aziende.
Queste dichiarazioni portarono me e decine di altri individui ad essere coinvolti in un procedimento giudiziario. Tuttavia, durante il dibattimento, non è stata prodotta alcuna evidenza – né telefonate, né contatti, né relazioni, né riscontri – capace di suffragare minimamente l’accusa. Al contrario, lo stesso consulente della Procura ha attestato la piena regolarità delle procedure di gara, e nessuno dei testimoni, sia quelli chiamati dall’accusa che dalla difesa, ha fornito elementi a carico degli imputati. Persino l’accusa, durante il processo, non ha ritenuto di condurre alcun esame sull’endoscopio o di produrre prove relative a presunte buste di gara alterate. Semplicemente, nulla. L’intero impianto accusatorio, presentato inizialmente con grande clamore mediatico, si è rivelato privo di qualsiasi fondamento probatorio concreto.
E così, “il fatto non sussiste”. Decine di persone e intere famiglie sono state costrette a difendersi in un processo che ha impegnato magistrati, avvocati, testimoni e consulenti, generando costi esorbitanti, per poi concludersi con un nulla di fatto.
Ci definiamo un paese moderno e civile, nel quale riteniamo che le libertà fondamentali dell’individuo siano garantite. Eppure, in questo stesso stato, un cittadino incensurato, un dirigente pubblico nell’esercizio delle sue mansioni, può essere improvvisamente privato della sua libertà personale, balzare agli onori della cronaca nazionale come presunto colpevole di gravissimi reati contro la pubblica amministrazione, essere licenziato dal sindaco pro tempore per queste ragioni, e infine trasformarsi in un imputato. Rammento bene il fragore mediatico, sia a livello locale che nazionale, i commenti sconsiderati di chi non riesce a distinguere un’indagine da una sentenza definitiva, e la percezione diffusa che il mero coinvolgimento in una vicenda giudiziaria sia già di per sé prova di colpevolezza.
Dopo un quinquennio di attesa, questa è la risposta che il sistema mi ha fornito: “il fatto non sussiste”. Sono perfettamente consapevole che una piena sentenza di assoluzione raramente genera lo stesso impatto mediatico dell’apertura di un’indagine, con il suo corollario di clamore. So per certo che i telegiornali nazionali non dedicheranno spazio alla lettura della mia sentenza assolutoria, sebbene non dovrebbe essere così. La mia dignità, la mia integrità morale, la mia onestà e il mio rigore non richiedono risarcimenti da questa vicenda; per mia fortuna, esse sono rimaste intatte, non scalfite da quanto accaduto.
Ho la chiara consapevolezza di non essere stato il primo ad affrontare una situazione del genere e, purtroppo, sono altrettanto certo che non sarò l’ultimo. Ribadisco la mia profonda soddisfazione per l’esito di questa sentenza, tuttavia, è imperativo che qualcuno fornisca delle risposte. È necessario spiegarmi perché in un paese che si proclama civile sia possibile che si verifichino eventi come quello che ho vissuto. Sono io che dovrò spiegarlo ai miei figli, prepararli a confrontarsi con la società in cui vivono, con il contesto in cui cresceranno, e con la reale portata delle libertà e delle garanzie che questo paese dovrebbe offrire loro.
Avv. Angelo Mancini
