Garlasco, la verità distruttiva: “Stasi è finito in carcere… oggi sarebbe impossibile” | Nuove analisi, vecchi errori

Garlasco, la verità distruttiva: “Stasi è finito in carcere… oggi sarebbe impossibile” | Nuove analisi, vecchi errori

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Nuove analisi, vecchi errori e un DNA ignorato: il castello dell’accusa traballa dopo 18 anni

Il caso Garlasco torna a scuotere l’Italia come se il tempo non fosse mai passato. La riapertura del fascicolo da parte della Procura di Pavia non è solo un atto giudiziario, ma un terremoto che rimette in discussione una delle sentenze più discusse degli ultimi decenni. Per anni si è creduto che la verità processuale fosse ormai consolidata, e invece i nuovi accertamenti stanno rivelando un quadro sorprendentemente diverso da quello che ha portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi.

La sensazione, negli ambienti investigativi, è che questa non sia una semplice revisione tecnica, ma una riscrittura dell’intera narrazione giudiziaria. E mentre il Paese torna a interrogarsi su ciò che avvenne quel 13 agosto 2007, emergono dettagli che potrebbero segnare un prima e un dopo nella storia del caso.

Il punto di svolta: un DNA ignorato e una perizia che oggi ribalta tutto

La riapertura delle indagini non è nata dal nulla. È stato l’incidente probatorio disposto dal gip Daniela Garlaschelli a riaccendere l’attenzione sulle prove scientifiche rimaste a lungo in ombra. Tra queste, una in particolare sta facendo vacillare l’intero impianto accusatorio che portò Stasi in carcere: il DNA maschile trovato sotto le unghie di Chiara Poggi, il famoso “Ignoto 1”.

Per anni si è sostenuto che quel profilo genetico fosse inutilizzabile perché degradato, un punto chiave su cui si è basata la perizia del 2014-2015 firmata dal professor Francesco De Stefano. Una conclusione che ha contribuito in modo decisivo a escludere altri sospetti e ad avvalorare la pista Stasi. Ma oggi quella certezza appare incrinata. La genetista Denise Albani, nominata nel nuovo incidente probatorio del 2025, ha stabilito che quel DNA non era affatto deteriorato: era integro, leggibile e perfettamente confrontabile.

Secondo Albani, non solo la presunta “replica” utilizzata per dichiarare la degradazione non era affatto valida, ma non esistevano neppure condizioni tecniche omogenee per un confronto scientifico. Un errore enorme, che di fatto ha orientato tre processi, un’archiviazione e un’intera costruzione giudiziaria durata dieci anni.

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Il nome che torna al centro e l’ombra sulla condanna definitiva

Il nuovo confronto genetico ha identificato la compatibilità del cromosoma Y di “Ignoto 1” con quello di Andrea Sempio, amico delle gemelle Poggi e già finito al centro delle indagini nel 2016-2017 prima di essere archiviato. Una circostanza che oggi assume un peso completamente diverso e che gli inquirenti stanno valutando con estrema attenzione.

Se il DNA trovato sotto le unghie della vittima apparteneva a un altro uomo, la domanda è inevitabile: come sarebbe cambiato il processo Stasi se questo dettaglio fosse emerso allora? La risposta degli esperti è netta. Nessun giudice, in un processo fondato su indizi, avrebbe potuto condannare l’imputato con la prova biologica di un altro soggetto direttamente collegata alla vittima. E questa verità pesa come un macigno.

È su questo punto che si concentra la nuova indagine. Non per assolvere automaticamente Stasi, ma per comprendere se la sua condanna sia stata costruita su pilastri fragili, interpretazioni parziali e conclusioni tecniche oggi smentite. Un quadro che gli stessi inquirenti definiscono come “completamente diverso” e che potrebbe riscrivere una delle pagine più complesse della cronaca giudiziaria italiana.

In un Paese che da diciotto anni cerca risposte, la domanda adesso non è più cosa sia successo quel giorno, ma se la verità giudiziaria raccontata finora sia davvero l’unica possibile.