Il Monito di Avellino: Il Vescovo Aiello Denuncia il Male di Vivere Silenzioso e l’Emergenza Educativa Ignorata
In seguito agli eventi drammatici che hanno profondamente turbato Avellino e la sua comunità, lasciando attoniti amici, familiari e conoscenti, il Vescovo Arturo Aiello ha deciso di esprimersi, sebbene non per unirsi al coro di voci già presenti. Egli rifiuta categoricamente di contribuire alla valanga di commenti sui media tradizionali e digitali, o di alimentare la morbosa curiosità di cronisti e giornalisti che assediano la scena del dolore, bramosi di un dettaglio finale, di un’immagine che catturi una famiglia disintegrata, immortalata forse nell’ultimo Natale, con lo sfondo festivo dell’albero e dei doni. Il suo intento non è quello di pontificare su una sofferenza inaudita, né di scrutare nella vita di una famiglia che, fino all’istante precedente la catastrofe, appariva come tante altre, alle prese con le sfide quotidiane del dialogo intergenerazionale.
Eppure – confessa il Vescovo – avverto distintamente come il sangue versato abbia macchiato ogni via, ogni palazzo, ogni dimora di questa città, dove le famiglie condividono i pasti e si scambiano un “buonanotte” prima che l’irreparabile accada. Percepisco lo sgomento e le lacrime di una comunità ferita da un’offesa che nemmeno le sostanze più aggressive potrebbero cancellare. Questa tragedia ci coinvolge tutti: individui e nuclei familiari, istituzioni statali e religiose, gruppi sportivi e associazioni culturali, giovani che affollano il corso e quelli che, ignorando i divieti, si radunano dietro la Cattedrale o sotto i platani. Quel sangue interpella me, interpella noi tutti, chiamandoci a rispondere alla domanda più antica della civiltà, nata anch’essa all’indomani di un fratricidio: “Dov’è Abele, tuo fratello?”
Ci chiede conto di un uomo che domani mancherà al suo posto di lavoro, di una famiglia che attendeva l’estate con la speranza che le difficoltà si sarebbero dissolte, ma che non conoscerà più un giorno di festa. Ci interroga su una figlia, ieri ‘reginetta di papà’, che oggi lo pugnala, non avvolto nella candida clamide di un senatore romano come Cesare, ma tra le lenzuola immacolate di bucato che ora ne hanno assorbito il sangue. Questa città, in tutto simile a molte altre – apparentemente placida ma intrisa di crudeltà, tranquilla ma abitata da demoni – dovrebbe, a mio avviso, scendere in piazza (e quanto vorrei che accadesse!), non per protestare (e contro chi?), ma per un’universale ammissione di colpa, nonostante i divieti di assembramento. La lezione della cultura greca insegna che la tragedia non è mai affare del singolo, ma coinvolge l’intera polis: il re e i sudditi, i giudici e i colpevoli, chi ha tramato a lungo e chi si è isolato per un anno. In questa collettiva e unanime assunzione di responsabilità per il sangue sparso sulla città, il Vescovo stesso non si sottrae; non si limita a benedire una folla silenziosa di sessantamila persone in Piazza Libertà, ma si pone al banco degli imputati, insieme ai suoi sacerdoti e alla Chiesa di Avellino, che egli indegnamente rappresenta. Il sangue su questa terra interroga la Chiesa e lo Stato, le sue istituzioni, i responsabili politici e amministrativi, gli intellettuali, il mondo della Scuola, le associazioni e il volontariato. Ci siamo lasciati distrarre dalla gestione continua di emergenze – dal terremoto post-sismico alla mucca pazza, dal terrorismo al crollo bancario, fino alla pandemia di Covid – dimenticando di focalizzare l’attenzione sull’AUTENTICA EMERGENZA EDUCATIVA.
Mentre eravamo impegnati in tante altre questioni, i nostri giovani crescevano, ma con quali guide? Gli stessi ragazzi che fanno la fila per l’ultimo smartphone e che ‘fanno le fusa’ per la paghetta, a causa delle nostre mancanze, ignorano il significato delle regole. Sono incapaci di immaginare una festa o un sabato sera senza eccessi, cercano sul web corsi sul suicidio o metodi per perdere peso fino all’anoressia. Le loro idee sono confuse sui confini tra diritti e doveri, tra bene e male, tra immaginazione e realtà, tra lo schermo del PC e la vita vera, tra il sangue finto dei film e quello reale che apre abissi. Confondono l’affetto con il possesso dell’altro, la DAD con la Scuola (volutamente maiuscola!), il luogo dove si cresce insieme cercando l’uomo con la lanterna di Diogene.
Il sangue che scorre nella città invoca con forza un’alleanza educativa che impegni tutti, al di là delle affiliazioni politiche o religiose. È un’impresa ancora realizzabile, prima che sia troppo tardi, per un’opera capillare di ‘alfabetizzazione ai sentimenti’, al lessico e al potere delle parole, che possono sia edificare che distruggere. È una ricerca di un’antropologia che aiuti i nostri figli a orientarsi nella giungla della comunicazione, dove tutti gridano e tentano di manipolare il DNA dell’essere umano. Questa ‘assemblea costituente’ sull’emergenza educativa è ancora possibile oggi, prima che l’irreparabile si compia, e richiede ampie convergenze tra genitori ed educatori che abbiano ancora a cuore il destino stesso dell’umanità.
Oggi, in questa Domenica del Buon Pastore, busso alla porta di ogni casa e di ogni istituzione civile e, riprendendo le parole del Vangelo, mi presento dicendo: “Mi importa di te!”. È la voce dell’amore che apre, non che chiude; che perdona, anziché condannare; che inventa tavoli di dialogo, non il “si salvi chi può!”. Mi importano i giovani carnefici e la loro vittima, questa città che nel sogno del Sindaco Di Nunno doveva essere un ‘giardino’ ed è invece divenuta una giungla. Mi preoccupa il disorientamento dei genitori e la loro esitazione nel porre limiti. Mi turba il sangue che stasera vedo scorrere, più abbondante del Sabato o del Fenestrelle, per le nostre vie, nelle nostre vite. Mi preme il destino dei bambini con le mani giunte per la Prima Comunione, che potrebbero trasformarsi in carnefici mentre noi monitoriamo ossessivamente il Covid, ignorando il silenzioso dilagare del “male di vivere”. Mi importa di te, di voi, del presente e del futuro di questa città. Per questo motivo, questa sera, non rassegno le mie dimissioni.
