L’Eredità del “Giudice Ragazzino”: Rosario Livatino, Martire di Fede e Giustizia, Proclamato Beato il 9 Maggio

L’Eredità del “Giudice Ragazzino”: Rosario Livatino, Martire di Fede e Giustizia, Proclamato Beato il 9 Maggio

Rosario Livatino, magistrato siciliano la cui esistenza fu una rara fusione di principi costituzionali e valori evangelici, si avvia a essere riconosciuto Beato il 9 maggio. Figura esemplare di “credente credibile”, come lo ha definito Papa Francesco, Livatino rappresenta un faro non solo per gli operatori del diritto, ma per tutti, grazie alla profonda coerenza tra la sua fede personale e il suo instancabile impegno professionale, oltre che per la sorprendente attualità delle sue riflessioni. Sarà il primo magistrato nella storia della Chiesa Cattolica a ricevere questo supremo riconoscimento, conferitogli per il martirio “in odium fidei”, ovvero per essere stato ucciso in odio alla sua fede.

La solenne cerimonia di beatificazione si terrà domenica 9 maggio nella Cattedrale di Agrigento, presieduta dal Cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Nel suo testamento spirituale, espresso in una celebre conferenza, Livatino affermò: “Quando moriremo nessuno verrà a chiederci quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Una frase che racchiude l’essenza della sua esistenza, in cui fu sia uomo di fede incrollabile che professionista di integrità assoluta.

Il brutale assassinio del “Giudice Ragazzino” – così chiamato per la sua giovane età – avvenne il 21 settembre 1990. I mandanti appartenevano alla “Stidda”, una fazione criminale in lotta con “Cosa Nostra” per il controllo del territorio agrigentino. La decisione di eliminare Livatino fu duplice: affermare la propria spietata forza attraverso un delitto di alto profilo e vendicarsi del suo zelante operato, che aveva portato al sequestro di arsenali ai danni delle loro attività illecite. Grazie a un testimone chiave, il commando omicida e i suoi mandanti furono rapidamente identificati e condannati in tre distinti processi, con sentenze confermate in tutti i gradi di giudizio. La motivazione della condanna evidenziava che Livatino fu ucciso perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.

Inizialmente, l’agguato era stato pianificato davanti a una chiesa di Agrigento, luogo che Livatino frequentava quotidianamente. Tuttavia, l’attentato fu messo in atto in un punto più isolato: il viadotto Gasena, che collega Canicattì ad Agrigento, mentre il giudice si recava in tribunale a bordo della sua Ford Fiesta amaranto. La sua auto fu speronata e costretta fuori strada. Ferito a una spalla, tentò una fuga disperata attraverso i campi, ma fu raggiunto e freddato con un colpo alla bocca. Prima di esalare l’ultimo respiro, Livatino si rivolse con mitezza agli assassini: “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”. Uno degli esecutori materiali, Gaetano Puzzangaro, avrebbe poi confessato il suo pentimento in un’intervista, rivelando: “Quella mattina speravo con tutto il cuore che il dottor Livatino facesse un’altra strada”.

Rosario era un magistrato stimato per la sua gentilezza, disponibilità e generosità. Pur consapevole delle minacce mafiose, rifiutò la scorta per non mettere a repentaglio la vita di altri, che avrebbero potuto lasciare “vedove ed orfani”. Non esitava ad assumere le inchieste più delicate, essendo l’unico in Procura senza una famiglia di cui temere. Conosceva la drammatica realtà della sua terra e non si illudeva sul suo destino. Interpretava la sua difficile professione come una vocazione, pur consapevole della scia di violenza che insanguinava la Sicilia, con magistrati e figure dello Stato che cadevano vittime uno dopo l’altro – da Cesare Terranova a Carlo Alberto Dalla Chiesa, da Pio La Torre a Carlo Chinnici, fino a Ninni Cassarà e Giuseppe Montana.

Per queste profonde preoccupazioni, Livatino annotava nella sua agenda tre iniziali: S.T.D. Un enigma per gli investigatori, il cui significato fu poi svelato: “Sub Tutela Dei” (sotto la protezione di Dio). Un’espressione del suo totale affidamento a Dio, sia per la sua persona che per il suo delicato operato.

Nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, unico figlio di Vincenzo Livatino, laureato in legge, e Rosalia Corbo, Rosario manifestò fin da giovane un’indole studiosa e una fede granitica, maturata anche attraverso l’impegno in Azione Cattolica. Si laureò in giurisprudenza a Palermo nel 1975 con il massimo dei voti, a soli 22 anni. Entrato in magistratura nel 1978, a 26 anni, dopo il tirocinio a Caltanissetta, divenne sostituto procuratore ad Agrigento il 29 settembre 1979. Le sue indagini, instancabili e determinate, portarono a sentenze incisive che lo posero rapidamente nel mirino della criminalità organizzata. Aveva solo 37 anni quando fu brutalmente trucidato da quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, servitore leale dello Stato e della giustizia.

La scelta del 9 maggio come data per la sua beatificazione non è casuale. Ricorda infatti il celebre anatema che San Giovanni Paolo II pronunciò contro la mafia il 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi di Agrigento, esortando i mafiosi alla conversione con le parole: “Dio ha detto non uccidere, la mafia non può calpestare questo comandamento di Dio, convertitevi, verrà il giudizio di Dio…”. Fu un momento storico in cui la Chiesa dichiarò con inequivocabile autorità l’inconciliabilità tra le logiche mafiose e i principi del Vangelo. Poco prima di quella storica omelia, il Papa polacco aveva incontrato i genitori di Rosario Livatino. La madre, con il cuore affranto, disse a Giovanni Paolo II: “Santità, avevamo solo lui, ce lo hanno ammazzato”. E il Pontefice, stringendole le mani, rispose: “Hanno reciso un fiore, ma non potranno impedire che venga la primavera. Rosario è un martire della giustizia e della fede.”