L’Anima Svelata: Il Testamento Spirituale Profondo di Monsignor Serafino Sprovieri
Per quasi nove decenni, di cui sessantacinque dedicati al sacerdozio e quaranta al ministero episcopale — che lo vide Vescovo Ausiliare di Catanzaro, Arcivescovo di Rossano-Cariati e, infine, Metropolita di Benevento — Monsignor Serafino Sprovieri ha percorso un cammino di fede e servizio. Rassegnò le dimissioni per limiti di età il 18 maggio 2005, comunicandolo a Sua Santità Benedetto XVI.
Fu in un periodo di intensa riflessione e preghiera, dal 21 al 25 novembre 2010, durante un ritiro spirituale a Cetraro, Cosenza, sotto la guida dell’Arcivescovo Emerito di Udine, Monsignor Alfredo Battisti, sul tema della “Messa”, che Monsignor Sprovieri, all’età di 80 anni, decise di affidare nuovamente la sua esistenza a Dio. Fu in quell’occasione che redasse, con cuore sincero, il suo testamento spirituale. Questo prezioso documento, scritto di suo pugno su un block-notes, fu poi fraternamente condiviso dal nipote dell’Arcivescovo, Monsignor Gianni Citrigno, Vicario Generale di Cosenza, con chi nutriva una profonda stima e devozione filiale per Monsignor Serafino.
Il testo, caratterizzato da un linguaggio conciso, essenziale e trasparente, rivela diverse dimensioni del suo percorso spirituale. In esso si eleva un inno di lode alla Santissima Trinità e alla Beata Vergine Maria per i doni incommensurabili della vita, del Battesimo, del sacerdozio e dell’episcopato. L’Arcivescovo espresse profonda gratitudine per la fede inculcatagli dalla sua famiglia d’origine e per la solida formazione ricevuta nei seminari di Cosenza e Reggio Calabria, ricordando con affetto i suoi superiori e professori.
In questo contesto formativo, emerge la figura del Padre Salvatore Pezza, gesuita e rettore del Seminario di Reggio Calabria, originario di Itri. Un aneddoto personale, che pur sembrando un inciso, illumina la catena del bene: suo fratello, il dottor Michele Pezza, veterinario provinciale di Benevento, e sua moglie Marianna Perrotti (nipote di Monsignor Paolo Iacuzio, Vescovo di Sorrento, originario di Forino di Avellino), furono una splendida testimonianza di fede nella comunità di San Gennaro a Benevento, donando alla città dodici figli, tutti stimati professionisti. Un esempio di come la testimonianza virtuosa si irradia attraverso le generazioni.
Con un’umiltà disarmante, Monsignor Sprovieri ammise di non aver saputo sempre valorizzare appieno i talenti ricevuti, confessando di essersi talvolta lasciato attrarre da superficiali entusiasmi per i fumetti e la musica. Descrisse il suo percorso di studi come “a metà strada”, pur essendo noto per la sua vasta e profonda erudizione in numerose discipline. Dichiarò, inoltre, la sua indegnità e il suo smarrimento dinanzi ai doni del Presbiterato e dell’Episcopato. Pur essendo stato un rettore eccellente nei seminari diocesani di Cosenza e Catanzaro, si considerò “incapace nell’ardua arena di Pastore” in un’epoca di radicale mutamento.
Il suo ministero episcopale fu improntato a un continuo discernimento, volto a potenziare il bene in ogni sfera, evitando di vincolare la Chiesa a un paradigma pastorale dettato da idee personali. Mostrò grande stima per i Vescovi Calcara, Picchinenna e Selis, figure che lo avevano guidato. Uscito dalle responsabilità ecclesiali, si immerse in un esame di coscienza così profondo da riuscire a scorgere ombre anche tra mille luci. Esprimendo rammarico per non aver scelto sempre “Dio solo” e per il “bene difettoso” compiuto, trovò unica consolazione nei “centomila Santi Rosari”, una preghiera appresa in casa dalla madre Francesca e dal fervente coro familiare.
L’Arcivescovo consegnò totalmente la sua vita nelle mani di Dio mentre l’esistenza volgeva al suo tramonto. Manifestò distacco dai beni materiali e gratitudine per l’accoglienza offertargli dal suo ex alunno, Monsignor Fausto Cardamone, che gli mise a disposizione una canonica a Cosenza per gli anni della pensione.
Nel suo testamento autografo, l’Arcivescovo Emerito di Benevento, Serafino Sprovieri, inizia con un solenne ringraziamento al Signore Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, dinanzi alla Corte Celeste e alla Vergine Maria, sua Madre. Riconosce i suoi ottant’anni come “un tessuto di doni”, dove ogni momento della sua vita è stato intessuto di grazia divina, fin dal suo Battesimo. La sua vocazione, pur tra “tanti marosi” e gli “anni tormentati dell’adolescenza”, fu avvolta dalla misericordia divina e crebbe, sbocciando in un intenso ministero attraverso il quale cercò di operare il bene. Esprime gratitudine ai molti sacerdoti che lo hanno mediato, dal suo parroco D. Domenico Cassano ai superiori e professori dei seminari, citando in particolare P. Pezza e altri illustri nomi come P. Peluso, P. De Tommaso, P. Carusone, P. Godino, e i professori Sergi, Scopelliti, Perrone, Santoro, Tenuta.
Confessa candidamente di non aver saputo valorizzare i talenti divini, perdendosi in “entusiasmi fatui” per i fumetti e la musica. Ammette di non aver perseguito una seria disciplina negli studi, sentendosi “a metà strada” in tutte le discipline, dalla teologia alla letteratura. Ciononostante, afferma di aver sempre cercato di offrire il meglio di sé agli altri, un incentivo costante nella sua vita. La chiamata al sacerdozio e poi all’episcopato fu per lui una “prova terribile”, sentendosi “indegnissimo”, nonostante tutti la considerassero una “scelta dello Spirito Santo”. Ricorda le lacrime di vergogna durante l’ordinazione sacerdotale per mano di Monsignor Aniello Calcara, che lo volle suo Segretario. La nomina a Vescovo Ausiliare di Monsignor Fares, comunicatagli da Monsignor Selis, lo precipitò nella “confusione”, tanto da non pronunciare parola al termine dell’ordinazione episcopale. Si interrogava sul senso di essere gettato nell’ardua arena di Pastore, in un’epoca di profondo cambiamento, sentendosi più adatto al ruolo di rettore. Il suo ministero episcopale fu “una continua improvvisazione”, focalizzata sul discernimento nelle diverse realtà ecclesiali (Catanzaro, Rossano, Benevento) e sull’incremento del bene, sempre guidato dallo Spirito e non da “paradigmi pastorali personali”. Guardo l’esempio di Monsignor Calcara, la cui “umiltà” fu arricchita da Monsignor Picchinenna e l'”umanità squisita” di Monsignor Enea Selis. Ringrazia il Signore per il bene compiuto anche attraverso di lui.
Nella fase di riposo dalle responsabilità, la sua coscienza si fece implacabile: riconobbe “cose mal fatte” e, soprattutto, l’aver avuto “quasi sempre me stesso come fine secondario” nelle sue azioni, mescolando la gloria di Dio con la sua propria. “Che peccato! Azioni ibridate da poca rettitudine!” Conclude che il vuoto nella sua vita derivava dalla “carenza nell’amore”, avendo cercato “altra cianfrusaglia” invece di “Dio solo”. Implora perdono per il male fatto e il “bene difettoso”, chiedendo che il suo “gemito ininterrotto”, notte e giorno, sia ascoltato attraverso la Vergine Santissima e i “centomila S. Rosari”, l’unica preghiera appresa in famiglia. Nell’affidamento totale a Dio per il “tramonto della sua esistenza” dopo le dimissioni del 2005, riconosce che le “sofferenze” gli hanno aperto “i ripostigli segreti, dove si annidava l’orgoglio”. La bontà divina gli ha fornito una “casa dignitosa” presso la Chiesa Madre, un gesto inatteso che ha profondamente toccato il suo cuore, soprattutto grazie all’ex alunno Monsignor Fausto Cardamone. I pochi risparmi, inizialmente destinati a un affitto, saranno ora lasciati “in eredità ai bisognosi”.
